È il tempo di riflettere. Bambini che già venivano a malapena a scuola, o quelli che non portavano i compiti per casa “maestra nessuno mi aiutava”. Chi come K. arrivava correndo per le scale, iperattivo, io penso fosse un DOP, e si fiondava in classe disturbando.
Stiamo vivendo senza lavoro o in smartworking alle prese con i figli, chi in DAD, chi in presenza, chi con turni alterni, con difficoltà organizzative.
I bambini, si sa, sono resilienti quindi loro ce la faranno comunque, “che devono capire”, hanno i loro giochi, il PC, il cellulare, cercando di spiegargli che “è un periodo”.
Prevenendo un lockdown a zone, non si è mai volto lo sguardo, neanche mesi fa, a chi il lockdown lo vive quotidianamente nella sua “casa dolce casa” o per meglio dire nel suo “caos dolce caos” (Cancrini), con una condizione socio-economica allo stremo e l’inaccessibilità dello sguardo dell’Altro e delle relazioni interpersonali (Benjamin, 2004) disorganizzate e confuse.
A scuola, apriti cielo quando era l’ora di storia e geografia! “Meglio lasciar perdere” disse un’insegnante, ed io, con un ruolo secondario in quella classe, avevo ben poco da poter offrirgli se non cominciare a far sentire K. importante, chiedendogli di aiutarmi con V. “non riesco a fare tutto, ho bisogno di te!”.
Il piccolo K. di soli 7 anni, occhi a mandorla nero corvo e un viso così adorabile, cominciò a contenere i suoi picchi di rabbia e a prendersi cura del suo compagnetto.
Ricordo in particolare un bambino, E. di 7 anni, costantemente accusato dalle insegnanti per provocare liti in classe. Un giorno venne da me, guardandomi con occhi sgranati e sinceri “maestra te lo giuro, non sono stato io!“ Diventerà uno spacciatore”, ”È già un bulletto a questa età, chissà cosa farà da grande” mi disse un’altra.
Rispondevo, di provare a pensare come potesse vivere quel bambino a casa sua e cosa voleva comunicare in classe con quell’atteggiamento. È un bambino non visto. E. come K. vive in un quartiere in cui già da piccoli devi farti rispettare, si conoscono tutti, “a cu appartieni” è la parola d’ordine e sei rispettato. “A cu appartieni” è la logica dell’identità dell’uomo e della sua cultura di appartenenza. E. è uno di quei bambini che non ha un dispositivo idoneo per studiare.
Imparano a vivere, a sopravvivere, imparano a loro spese, con la loro resilienza. L’infanzia di E. e di tutti gli altri è un’infanzia infelice, ancora sconosciuta.
Si meritano di avere qualcuno che gli dica “io credo in te”. Infondere speranza in qualcuno è dare parola al loro dolore.
E. mi abbracciò e mi strinse forte quando si sentì dire “io ti credo” accusato dall’insegnante e dal compagno.
Io ci credo in loro portando con me una missione personale e professionale: “È più facile costruire bambini forti che riparare uomini rotti” (Frederick Douglas)
Autore: Sharon Lauricella